Dal kuru al ruolo della sialilazione nelle malattie da prioni

 

 

ROBERTO COLONNA & GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 19 dicembre 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La proteina prionica patogena PrPSc è la forma mutata nella struttura e capace di autoreplicarsi del prione cellulare, ossia PrPC, una sialoglicoproteina intensamente studiata fin dalla scoperta di questa classe di agenti proteinacei da parte di Prusiner. Non solo l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE) nella sua variante umana (m. di Creutzfeldt-Jacob), che dal 1986 si diffuse dalla Gran Bretagna con una sia pur limitata epidemia europea, ma anche le altre malattie da prioni e il meccanismo prionico scoperto in alcune patologie neurodegenerative con differente patogenesi, hanno contribuito a mantenere alto l’interesse della ricerca per ogni aspetto della biochimica di questi polipeptidi.

La sialilazione, ossia la coniugazione di acido sialico al prione, è stata scoperta più di trent’anni fa, ma il ruolo che effettivamente abbia nella patogenesi delle malattie da prioni non è stato ancora definito. Ora Baskakov, facendo il punto delle più recenti acquisizioni sperimentali, definisce questo ruolo.

(Baskakov I. V., Role of Sialylation in prion disease pathogenesis and prion structure. Progress in Molecular Biology and Translational Science – 175, 31-52, 2020 -Epub ahead of print doi: 10.1016/bs.pmbts.2020.07.004, 2020).

La provenienza dell’autore è la seguente: Department of Anatomy and Neurobiology, and Center for Biomedical Engineering and Technology, University of Maryland School of Medicine, Baltimore, MD (USA).

Le malattie da prioni costituiscono un gruppo di condizioni patologiche neurodegenerative che colpiscono tanto l’uomo quanto gli animali. Prima della scoperta dei prioni quali responsabili della patogenesi del danno, le singole malattie erano descritte separatamente o classificate in base a un elemento istologico caratterizzante, ossia la degenerazione spongiforme del parenchima cerebrale, oppure sulla base dell’ipotesi eziologica più accreditata, ossia quella da virus di un tipo sconosciuto di dimensioni inferiori a quelle di tutti gli altri virus noti. Si parlava di encefalopatie spongiformi subacute, di malattie da virus lenti o di demenze trasmissibili, denominando la neurodegenerazione che colpiva le mandrie, encefalopatia spongiforme bovina (BSE), mentre quella che affliggeva le pecore conservava il nome di scrapie, e poi vi erano le forme che interessavano l’uomo, quali la malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD), la malattia di Gerstmann-Sträussler-Scheinker (GSS), l’insonnia familiare fatale (FFI) e il kuru.

La storia di quest’ultima patologia merita di essere conosciuta, perché la nozione di trasmissibilità della malattia che fece ipotizzare l’eziologia virale e condusse poi alla scoperta dei prioni nasce proprio dallo studio medico di una curiosità etnico-antropologica, ossia una strana malattia neurologica e psichiatrica, caratterizzata da tremore, atassia e comportamenti bizzarri come risate inappropriate incontrollabili, che colpiva con notevole frequenza alcune tribù indigene della Nuova Guinea. Secondo quanto riferito dagli aborigeni e compreso dagli osservatori britannici, improvvisamente qualche uomo anziano, ma soprattutto donne, bambini e ragazzi, erano posseduti da uno spirito che li faceva tremare e scuotere come se avessero i brividi: comportamento denominato kuru, con una parola dell’idioma locale che indica le scosse.

Nel 1955 Vincent Zigas, medico neurologo di Tallin (Estonia) e primo sanitario occidentale ad esercitare in Papua Nuova Guinea nel Sub-distretto di Kainantu, decise di studiare quella che appariva come un’epidemia di un grave disturbo neurologico. L’osservazione fu specificamente concentrata sulla tribù aborigena dei Fore o, più precisamente, i South Fore. Zigas notò dapprincipio che la malattia portava invariabilmente a morte le persone colpite e che la presentazione clinica, pur variabile, faceva registrare quali costanti il tremore ed altri tipi di scosse, il kuru appunto, accanto a perdita di equilibrio, movimenti oculari innaturali e altri sintomi motori.

Poi, rilevando la rapida propagazione, suppose una diffusione epidemica per contagio, ma registrò notevoli incongruenze per questa ipotesi: vi erano persone, fra cui numerosi uomini di varie età, costantemente a contatto con gli ammalati ma apparentemente immuni, in quanto non contraevano la malattia, mentre altre, spesso bambini e donne, che continuavano ad ammalarsi. Vincent Zigas avvertì le autorità australiane e ritenne di aver bisogno dell’aiuto di un pediatra, visto il gran numero di pazienti in età evolutiva, e di un infettivologo, considerate le anomalie della presunta infezione che non riusciva a spiegare. Un aspetto dell’epidemia rassicurava le popolazioni di origine coloniale: nessuna persona discendente da Europei che era venuta in contatto con le tribù colpite si era mai contagiata. Tuttavia, le osservazioni di Zigas sembravano escludere per andamento epidemiologico la malattia genetica, tenendo in piedi l’ipotesi infettiva, verosimilmente virale.

Nel 1957 Zigas decide di intraprendere un nuovo studio, questa volta coadiuvato da un ricercatore newyorkese, che era in quel periodo in Australia e aveva competenze pediatriche e virologiche: Daniel Carleton Gajdusek[1], col quale ufficialmente dovrà descrivere in termini epidemiologico-statistici il fenomeno, ma che condivide la ferma intenzione di venire a capo dell’eziologia del kuru.

I due medici svolsero un vero studio di antropologia culturale sul campo, focalizzando l’attenzione su aspetti poco conosciuti o ignorati in precedenza: la popolazione tribale dei Fore praticava l’antropofagia e, come molti popoli rimasti antropofagi nell’epoca contemporanea, in tempo di pace si limitava al consumo rituale del corpo dei propri defunti: ai cacciatori/guerrieri veniva data la carne del defunto, secondo la credenza che mangiandone i muscoli aumentasse la loro forza, mentre alle donne, ai bambini e agli anziani, si dava il cervello, ritenuto sede di qualità psichiche, che in tal modo sarebbero andate ad accrescere quelle già possedute.

Zigas e Gajdusek dedussero che se l’agente infettante aveva specifico tropismo cerebrale e la trasmissione avveniva per via oro-digestiva era possibile spiegare molte cose: ad esempio, il crescere dei casi poteva essere dovuto al fatto che il kuru portava sempre a morte le persone colpite e il cervello di ogni defunto era mangiato da più persone; si spiegava anche perché nessuna persona che non fosse appartenente alla tribù si infettasse; infine, gli uomini sia giovani che maturi apparivano immuni perché, come si è detto, in quanto cacciatori/guerrieri assumevano la carne dei defunti ma non il cervello.

Dopo un anno di lavoro, Zigas e Gajdusek pubblicarono un report delle loro osservazioni sulla tribù aborigena più colpita dall’encefalopatia[2]: il 60% delle donne adulte e un terzo dei bambini che aveva mangiato il cervello dei morti si era ammalato; degli uomini adulti, che avevano mangiato solo il muscolo delle salme, nessuno si era ammalato. Naturalmente non era stato possibile fare accertamenti precisi sulle quantità di cervello assunte e sulle regioni encefaliche di provenienza; due variabili che, con ogni probabilità, avrebbero potuto spiegare la quota di persone che non aveva sviluppato la malattia. I due medici inviarono immediatamente dei campioni di cervello ai laboratori di analisi virologiche, ma non fu possibile evidenziare alcun virus.

Zigas e Gajdusek descrissero clinicamente la malattia, indicando fasi e sintomi riconducibili a quelli della malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD); i due studiosi ebbero anche il merito di indurre la regina d’Inghilterra Elisabetta II, come capo politico del Commonwealth e conseguentemente della Nuova Guinea, a promuovere l’approvazione di una legge che proibisse il cannibalismo, abolendo i turpi e barbari rituali antropofagici.

Si ebbe immediatamente un crollo di nuovi casi e nei decenni successivi si arrivò alla progressiva scomparsa del kuru[3]. Gajdusek, dopo aver vissuto per un certo periodo presso i South Fore, occupandosi personalmente dell’esame necroscopico del cervello degli ammalati deceduti, aveva continuato gli studi per proprio conto, dimostrando che il kuru poteva essere trasmesso agli scimpanzé con un periodo insolitamente lungo di incubazione, che poteva durare anni[4]. Nel 1967, dieci anni dopo il report firmato con Zigas, Gajdusek pubblica su Science la prima dimostrazione della trasmissibilità di una malattia umana degenerativa non infiammatoria a un primate non umano. Dopo altri dieci anni, nel 1977 Gajdusek formula compiutamente la sua ipotesi che l’agente infettivo sia un virus insolito, in un articolo scritto per gli NIH (Bethesda) intitolato Unconventional Viruses and the Origin and Disappearance of Kuru[5].

Intanto, mediante esperimenti riusciti di trasmissione dello scrapie fra le pecore e di CJD e GSS nei primati, si ebbe la conferma che queste patologie neurodegenerative potevano contagiare attraverso il trasferimento di cervello, e così per il kuru, lo scrapie, la CJD e la GSS fu coniata l’etichetta di “demenze trasmissibili”. La natura dell’agente trasmissibile è rimasta a lungo indeterminata e ha costituito materia di accesi dibattiti.

L’ipotesi di un “virus non convenzionale”, come lo aveva definito Gajdusek, cominciò a cadere in discredito perché, dopo la lunga, estenuante e infruttuosa ricerca di strutture virali o di reazioni immunologiche che provassero indirettamente l’esistenza di una specie sui generis di questi microrganismi, numerosi esperimenti avevano dimostrato che l’inattivazione degli acidi nucleici non riusciva in alcun modo a prevenire l’infezione. La ricerca si orientò verso un agente polipeptidico privo di acido nucleico.

Questi studi culminarono nel 1982 con l’isolamento di una sialo-glicoproteina resistente alle proteasi, definita da Stanley Prusiner e colleghi prion protein (PrP): era stata scoperta la più piccola particella biologica capace di trasmettere infezione. Prusiner, per distinguere questa particolare molecola da virus e viroidi, aveva proposto la denominazione prione (liberamente derivata da proteinaceous infectious particle), che non aveva convinto tutti i biologi molecolari, al contrario della sua efficace definizione: piccole particelle infettive proteinacee che resistono all’inattivazione determinata da procedure che modificano gli acidi nucleici[6].

Negli esperimenti di Prusiner, il PrP appariva come il maggior costituente delle frazioni infettive del materiale studiato e come una proteina accumulata nel cervello affetto dall’encefalopatia, dove talvolta formava depositi amiloidi.

Ora è chiaro che l’elemento centrale e comune alle malattie da prioni è l’alterato metabolismo della proteina prionica, che può esistere in differenti stati conformazionali caratterizzati da precipue proprietà fisico-chimiche. La normale forma cellulare della proteina, cioè PrPC è una sialoglicoproteina GPI-ancorata e altamente conservata della superficie cellulare, che è sensibile al trattamento con proteasi e solubile nei detergenti. Le isoforme della proteina prionica associate a malattia, indicate con PrPSc, che sta per “PrP-scrapie”, si trovano esclusivamente nei tessuti infettati dai prioni come materiale proteico aggregato e sono parzialmente resistenti al trattamento con proteasi e insolubili nei detergenti.

Il ruolo essenziale delle proteine prioniche dell’ospite per la propagazione e la patogenesi delle malattie da prioni è stato dimostrato da tempo e l’ipotesi esclusivamente proteica del meccanismo è bene illustrata in manuali e trattati, ai quali si rimanda.

La sialilazione, una modificazione terminale dei glicani N-associati, si conosce da molto tempo, come si è ricordato prima, ma fino ad oggi non si è giunti ad una definizione esatta del ruolo che ha questo processo nello sviluppo delle malattie da prioni.

Baskakov inizialmente discute i dati recenti che suggeriscono che la sialilazione dei glicani N-associati determina il destino dell’infezione da prioni in un organismo e controlla il linfotropismo del prione. Poi presenta le evidenze emergenti che indicano un ruolo degli N-glicani nella neuroinfiammazione. Per la terza possibilità, passa in rassegna un meccanismo che suggerisce che i glicani N-associati sialilati giochino un ruolo importante per la definizione della struttura specifica del particolare ceppo di prione.

Baskakov pone poi all’attenzione una nuova ipotesi secondo cui strutture specifiche per ceppo di PrPSc governano la selezione di sialoglicoforme di PrPC. E, infine, spiega come la sialilazione N-glicanica controlli la replicazione del prione e l’interferenza di ceppo.

Alla luce dei dati proposti nella rassegna, l’insieme degli argomenti discussi consente di dare risposte a quesiti rimasti insoluti per decenni.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Roberto Colonna & Giovanni Rossi

BM&L-19 dicembre 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Gajdusek, prima di ottenere la laurea in medicina ad Harvard aveva studiato matematica, fisica, biologia e chimica alla Rochester University.

[2] Daniel Carleton Gajdusek & Vincent Zigas, Degenerative Disease of the Central Nervous System in New Guinea. New England Journal of Medicine 257 (20): 974-978, Nov. 14, 1957.

[3] Qualche rarissimo caso segnalato nel 2001 è probabilmente un’encefalopatia da attribuire ad altra causa.

[4] Gajdusek D. C., et al. Trasmission and passage of experimental “kuru” to chimpanzees. Science 155 (3759): 212-214, 1967.

[5] Per questi studi nel 1976 Daniel Carleton Gajdusek aveva ottenuto con Baruch S. Blumberg il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina. Nel 1978 Vincent Zigas pubblica Auscultation of Two Worlds, che rammenta il suo ruolo nella scoperta della trasmissione del kuru attraverso l’ingestione del cervello dei defunti.

[6] Stanley Ben Prusiner, neurologo e biochimico dello Iowa (USA), nel 1997 ha ricevuto il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina per la scoperta dei prioni.